GIOVANI ABORISMI

Il tema che vorrei affrontare con te è l’arte giovanile. Prima, però, di parlare dei giovani e degli ultimi fermenti, io comincerei parlando un po’ di te e dei tuoi esordi […].

Io inizio come poeta, proveniente da una famiglia di aristocrazia di campagna, di borghesia agraria, costretto a lunghe vacanze estive nelle proprietà di famiglia, nel palazzo in cui sono nato […]. Sono diventato intellettuale per disperazione, in quanto non riuscivo a legare con i ragazzi del paese, visto che tutto l’anno noi vivevamo a Napoli. Evidentemente, però, in me già c’era una attitudine, una attenzione, una curiosità verso la cultura, favorita dalla biblioteca paterna a cui io attingevo liberamente, con grande capriccio, direi proprio annusando i libri: letteratura americana, Faulkner, poi attraverso, è proprio il caso di dire, il medico condotto di Caggiano, dove sono nato, i primi libri di Kafka: La metamorfosi, Il castello e tanti altri. Testi di teatro, mio padre aveva una bellissima collezione di una rivista che si chiamava Il dramma, diretta da Lucio Ardenzi, su cui ho letto Eugene O’Neill, tanto teatro, quello italiano, Pirandello e molti altri. Insomma diciamo che era una sorta di nutrimento per sopravvivenza. Tornavo a Napoli e riprendevo gli studi […]

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[…] Del tuo esordio specifico nel mondo dell’arte che mi dici? Qualche precedente in famiglia?

[…] Di artisti nella mia famiglia c’è ne è uno molto importante: Giuseppe Bonito, grande pittore del ’700, che è ospitato nel museo Capodimonte di Napoli. Era il pittore preferito dei Borboni, a corte. Diciamo che io ho coltivato all’inizio un interesse per la parola, lettura di romanzi e pratica poetica. Quei tentativi che credo ogni adolescente faccia, ma che io ho portato avanti in maniera sperimentale, partecipando ad un famoso gruppo d’avanguardia, il Gruppo 63, e facendo tra i primi, a livello internazionale, la poesia visiva, che è un incrocio tra arte figurativa e parola. Poi è nato un gruppo d’avanguardia che si chiamava Operativo 64, a Napoli, dove c’ero io come poeta, ma anche pittori, scultori e dove comincio ad avere anche un ruolo di teorico del gruppo. Ecco il primo avvicinamento alle arti visive, in termini proprio sperimentali, ad un gruppo di avanguardia.

Quanti anni avevi?

Avevo 24 anni. Ricordo che era molto importante questa nostra partecipazione alle conferenze presso la libreria Guida di Napoli […]. C’era la tradizione di far venire ogni settimana un grande scrittore da tutto il mondo: Kerouac, Ginsberg, Pasolini, Moravia, Argan, Roland Barthes, e così io facevo degli interventi, pressoché ermetici, di venti minuti dopo le conferenze […]. Così ho avuto modo di conoscere i primi grandi: Argan, mitico storico dell’arte, Filiberto Menna, che insegnava a Salerno Storia dell’Arte Contemporanea e divenne il critico de Il Mattino, il giornale più importante del Sud e di Napoli. Quindi mi avvicino sempre più all’arte. Menna mi chiama a tenere i primi corsi all’Università di Salerno e mi sposto, direi impercettibilmente, dopo aver pubblicato due libri di poesia sperimentale […], definitivamente verso l’arte, in quanto sento che qui ci sono maggiori fermenti, maggiori contatti, c’è scambio, c’è dibattito, c’è un ambiente più vivo. Con un’arte americana, la Pop Art, che era già arrivata nel ’64 alla Biennale di Venezia e che si era ampiamente diffusa, c’era un clima più cosmopolita. Insomma, la parola va tradotta, l’immagine arriva direttamente. E quindi mi trovo a fare i primi corsi all’Università di Salerno, mi sposto nel ’68 a Roma e comincio a fare il critico. […] Direi che la mostra che mi tiene veramente a battesimo si chiama “Amore mio”, fatta a Montepulciano, in Toscana, nel palazzo di un grande architetto manierista che si chiamava Peruzzi, dove invitavo dei grandi artisti a presentare […] le proprie preferenze, gli amori culturali, spirituali, gli amori linguistici, antropologici, ecc. E lì io introduco già il mio modello critico, un modello protagonista. Non più il critico servo di scena, figura laterale, ma primo attore. E come gli artisti ho a disposizione 8 pagine. In queste 8 pagine metto per 8 volte la stessa mia foto fattami da un grande fotografo che si chiamava Ugo Mulas, con un testo di Nietzsche che scorreva sull’immagine, sul tema della morte. Si andava a sconvolgere, così, un ambiente non abituato al protagonismo del critico, un ambiente politico che era abituato a considerare Nietzsche un filosofo di destra. Gli artisti stessi erano sorpresi di veder nascere un compagno di strada, non più silenzioso, masochista e servizievole, ma protagonista, narcisista come loro e portatore anche di idee nuove. Faccio poi una mostra a Palazzo delle Esposizioni, che si chiama “Vitalità del negativo” […]; poi, piano piano faccio la Biennale di Parigi come commissario italiano, scrivo il mio primo libro, Il territorio magico, e poi faccio una grande mostra su Duchamp. Poi organizzo una grande mostra nel ’73, nel parcheggio di Villa Borghese, appena ultimato dal grande architetto Moretti e faccio impacchettare le Mura Aureliane dall’artista Christo. La mostra fu organizzata dagli Incontri Internazionali d’Arte, una struttura privata, il cui segretario generale si chiama Graziella Lonardi, con cui lavoriamo tutt’ora e con cui c’è questa situazione, questo intreccio, questo rapporto. Con il settore Istruzione Pubblica abbiamo fatto varie mostre. Diciamo che col ’73 c’è la mia consacrazione a critico internazionale, con una mostra di 45 artisti europei e 45 americani, ma non c’è solo l’arte, ma cinema, teatro, musica, fotografia, danza, poesia, libri.

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Sono passati più di 30 anni da allora…

Poi c’è la crisi del petrolio, la guerra del Kippur arabo-israeliana, c’è la crisi delle ideologie, delle scienze umane, c’è la crisi del marxismo ed ecco che nasce una crisi anche nell’arte di avanguardia che era sempre parallela al discorso politico. Io, come Lenin, mi chiedo che fare, come uscire dal pantano accademico dell’arte concettuale. Avevo già scritto un libro, un primo saggio sul Manierismo, per il concorso all’università, e riprendo questo modello. Mi ricordo che nel ’500, dopo il grande Rinascimento, c’è un’epoca di crisi e gli artisti rispondono, invece che con il principio dell’invenzione, con quello della citazione: riprendere i linguaggi del passato per difendersi da una mancanza di futuro. E lì scrivo un libro che si chiama L’ideologia del traditore e comincio a teorizzare la Transavanguardia, che è una forma di neomanierismo: Chia, Cucchi, Clemente, De Maria e Paladino. Poi c’è la grande affermazione alla Biennale di Venezia del 1980, che diventa internazionale, […] con l’accoglienza in America molto forte da parte dei collezionisti, dei musei, dei media (qui la consacrazione) e poi altre grandi mostre, libri che ho fatto, fino a quando nel ’93 dirigo la mia Biennale di Venezia, che è ormai diventata un modello espositivo. Ho partecipato, collaborato alla Biennale di San Paolo, alla Biennale di Dakar e ad altre mostre internazionali. Nel ’97, ho fatto una mostra che si intitolava “Minimalia”, sull’arte italiana del XX secolo, che trova poi la sua consacrazione nel ’99 a P.S.1, che è considerato il museo più avanzato che c’è in America. La Transavanguardia è poi andata avanti ed io ho continuato a realizzare mostre. A Napoli vengo chiamato, come consulente per le Arti Visive, da Antonio Bassolino, il quale ha avuto l’intuizione di capire come l’arte possa dare credibilità al progetto politico e preparo per lui un progetto triennale. […] Alla Certosa di Padula ho fatto ristrutturare i giardini da architetti specialisti nei giardini ed inaugurato una mostra dal titolo “Le opere e i giorni” in collaborazione con la Soprintendenza di Salerno. Giovanna Sessa, Gennaro Miccio, i Soprintendenti, Prosperetti prima e Zampino ora, hanno assecondato pienamente questi progetti e quindi l’arte contemporanea è arrivata fino ai confini della Campania. Inoltre a Napoli abbiamo realizzato il museo Madre, con la Regione, in cui Bassolino è Presidente della Fondazione, io Vicepresidente, nonché presidente del comitato scientifico, direttore della Fondazione Edoardo Cicelyn e curatore generale Mario Codognato, con mostre di rilievo internazionale e in più Cicelyn in questi dieci anni ha realizzato in piazza Plebiscito a Natale, ogni anno, una installazione di grandi artisti, richiamando l’attenzione del pubblico e creando un dibattito in tutta la città, in collaborazione anche lì con la Soprintendenza del Museo Archeologico, di Capodimonte, del Palazzo Reale. Ecco quindi che si è creata una sinergia tra arte e politica, con grandi vantaggi per l’arte e grande decoro per la politica.

Dal tuo osservatorio privilegiato, che è quello di chi ha una visione ampia, perché di respiro internazionale, di tutto il panorama artistico contemporaneo, che viene da trent’anni e più di esperienza, quali sono secondo te le grosse differenze tra ieri ed oggi nel mondo dell’arte?

Possiamo dire che negli anni settanta c’è un empito politico, c’è una passione culturale che passa anche attraverso il dibattito, il bisogno del gruppo. Non a caso, poi, io realizzo la Transavanguardia che è formata da un gruppo di artisti, e in questi anni, col superamento totale delle ideologie, col disincanto, siamo di fronte a generazioni che vivono non dico senza speranza, ma vivono il lavoro dell’arte senza l’eroismo degli anni ’70, direi con una burocrazia comportamentale che riguarda anche i curatori che fanno manutenzione, più che interpretazione dell’arte.

Il panorama artistico inerente ai giovani, anzi i giovanissimi: che mi dici?

La Transavanguardia è stata favorita anche da un decennio di grande ricchezza: gli anni ’80. C’è stato un boom nel collezionismo, c’è stato anche un ritorno di rispetto verso l’arte, proprio perché fino agli anni Settanta c’era stata un’arte che si era smaterializzata, era diventata fotografia, era diventata un concetto, un’idea. Con la Transanvanguardia c’è un recupero del corpo dell’arte, della pittura, del piacere del colore, della forma, anche della forma astratta […]. Dopo gli anni Novanta, è tornata una crisi economica che tutt’ora persiste e questo ha creato anche problemi alle gallerie, ai collezionisti ed agli artisti stessi. I giovani artisti d’oggi, dunque, si trovano in una situazione senza dubbio molto meno favorevole di quanto non fosse negli anni Ottanta per quelli della Transavanguardia.

Ma oltre che […] da un punto di vista economico, in Italia e all’estero, la situazione è anche meno favorevole proprio per quella mancanza di futuro e di prospettive di cui parlavi fino ad un attimo fa? […]

Io credo che sia tutto un insieme di cose. Crisi dei valori, crisi sociale. Anche perché ci sono state delle trasformazioni. Non dimentichiamo che c’è, proprio oggi, un mondo molto più multietnico […], multiculturale. Ci sono invasioni di popoli che scendono da paesi poveri o perché in guerra o perché cacciati. C’è anche, delle volte, una risposta isterica di ceti più poveri che si sentono a loro volta invasi e direi anche contaminati. In realtà, io sono per il multiculturalismo, per la multietnia, ma diciamo che tutto questo ha creato un nuovo contesto. Un contesto molto complesso di cui risente anche l’arte e la ricerca dei giovani.

Cos’è che hai visto negli ultimi mesi, negli ultimi anni di particolarmente eclatante o che ti è sembrato veramente “speciale”?

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Io, adesso, più che degli artisti che lavorano su di una mentalità collettiva o con delle poetiche affini, vedo degli artisti dell’ultima generazione, diversi tra loro, come Elisabetta Benassi, Francesco Arena, Victor Bauer, Scotto di Luzio, Piero Volìa, Sara Ciracì, in Italia. All’estero vedo Sislej Xhafa, un’artista del Kosovo molto brava, che vive a N.Y., Bianco e Valente, Perino e Vele, dei fotografi bravissimi, alcuni registi. Io posso dire, come testimone, di avere una attenzione “attiva”, propositiva che riguarda più gli artisti nel senso classico della parola, però constato che c’è a Napoli una ventata di nuovo cinema molto interessante: Sorrentino, Capuano, Pappi Corsicato. Fotografi giovani: Biasiucci o per esempio, novità anche nel campo del teatro, dopo Martone. Trovo che ci sono forze culturali sparse per ogni categoria o linguaggio, che però operano in termini solitari, individuali.

Comunque, c’è qualcosa che si muove, un fermento….

Ma l’arte è un respiro biologico, non smette mai, altrimenti il mondo morrebbe per asfissia! L’arte è il polmone della vita collettiva di ogni civiltà. Là dove c’è libertà, democrazia, c’è anche un’arte che si espande liberamente e devo dire che in Europa e in America c’è sempre un fermento nuovo. Ma direi che oggi questi fermenti lambiscono anche altri continenti: l’India, la Cina… Io adesso sto preparando, per il 31 maggio (l’intervista si è svolta nello scorso aprile, ndr), una grande mostra per il nuovo museo di Shangai, fatta e prodotta dall’ICE, Istituto Commercio con l’Estero, una mostra che nasce da un dialogo tra me ed il Presidente dell’ICE, Umberto Vattani e che si chiama “Italy Made in Art: Now”, dove l’idea è che anche la produzione materiale italiana ha alla base una matrice, una memoria culturale (che è poi l’idea del progetto rinascimentale: armonia, proporzione e simmetria, la cosiddetta eleganza). Io faccio una mostra che va da Lucio Fontana fino ai giovani d’oggi, ma non solo artisti nel senso stretto del termine, ma anche rappresentanti del design, cinema, teatro, musica, danza, fotografia e poesia visiva.

[…] Rispetto magari a vent’anni fa, quando c’era l’idea del gruppo, oggi, mi dicevi un attimo fa, si notano artisti singoli….

Ma non sono artisti singoli perché io li vedo singoli, il fatto è che è cambiato il contesto. Prima c’era maggiore fiducia nella politica, c’era il cosiddetto collettivo, che si riverberava nell’arte in una sorta di contro-comunità estetica e noi, infatti, vivevamo insieme con gli artisti mattina, pomeriggio, sera e notte. Passavamo il tempo assieme fino all’alba. Adesso gli artisti hanno i loro orari come gli impiegati, anche perché vivono più singolarmente, in ambiti più familiari, più ristretti. Non c’è più quella gioia di vivere, di scambiare che c’era negli anni Settanta e Ottanta.

Certo è vero che emergono alcune figure solitarie che ho seguito in questi decenni, come Vettor Pisani, un artista che lavora sull’alchimia, sul recupero dell’oggetto, sullo studio di Duchamp, di Beuys, su Leonardo, quindi un lavoro sull’ironia e sulla profondità; Gianni Piacentini, uno che negli anni ’70 comincia con l’Arte Povera, ma che poi ha un suo percorso solitario. Lavora al limite del design, con delle forme aerodinamiche che non hanno una funzione pratica, ma solo estetica; Maurizio Mochetti, che lavora col laser e realizza dei piccoli aerei, delle macchine futuribili. Poi, ancora, Pier Paolo Calzolari, anche lui un solitario che ha lavorato in maniera molto lirica con diversi materiali, ma senza quell’impronta ideologica di molti artisti dell’Arte Povera, quindi più libero. Un altro grandissimo artista è Michelangelo Pistoletto, che parte con i ritratti su superficie specchiante e arriva a fare lavori con forme diverse, ma sempre sul problema dell’identità. È un’arte che oggi si interroga sul mondo in cui viviamo […]. Lui sta teorizzando una “creatività responsabile”, cioè come fare in modo che l’arte non sia una domanda sul mondo, ma possa diventare anche una risposta ai problemi. Per concludere, tra gli artisti di ultimissima generazione, uno molto bravo si chiama Matteo Basilè. Lui lavora molto sul digitale, attraverso il computer, con la fotografia, col video, ma restituendo a questi mezzi una complessità oltre che un piacere estetico per l’occhio.

Che cosa ti colpisce in un artista al punto da farti pensare che valga la pena interessarsi al suo lavoro?

Il fatto che non è omologato, che fa qualcosa che io non ho mai visto, che mi crea un “inciampo” alla vista, una piccola sorpresa. L’arte è una smagliatura, come in una calza di nylon, il critico è quello che fa la cucitura. E questa smagliatura deve essere prodotta dall’opera […].

[…] Noto, sempre più spesso, che i giovani artisti, […] puntano molto sulla comunicazione e si preoccupano anche di sponsorizzare se stessi. Per questo li vedi fare uso, molto più facilmente, di dvd o cd-room per proporre il proprio lavoro.

Io ripeto sempre quello che chiamo un “aborisma”, anziché un aforisma: c’è chi passa alla storia e chi alla geografia! Prima gli artisti passavano alla storia dall’opera, adesso passano alla geografia, perché si muovono, vanno a conoscere i galleristi, vanno dal critico, viaggiano, prendono l’aereo. Sono dinamici. Oggi c’è un nomadismo professionale che non va tutto stigmatizzato negativamente, che va al passo dei tempi. L’arte contemporanea è per definizione nomade, mobile e flessibile.

[…] Guardando ai giovani d’oggi, non trovi che dilaghi una certa ignoranza? non vogliono studiare, sono poco interessati alla cultura ed invece molto attratti dall’apparenza delle cose. D’altro canto è pur vero che viviamo nella società dell’immagine!

È chiaro che la telematica, la televisione, il computer hanno sviluppato quella che io chiamo una sensibilità pellicolare, bidimensionale, senza approfondimento. La spettacolarità di questi mezzi assorbe molta attenzione da parte dei giovani i quali acquistano delle tendenze che li portano a “scorrere” sulle cose, piuttosto che ad approfondire. È un problema legato anche ai mezzi di riproduzione e di diffusione.

Concludiamo con i tuoi programmi per il futuro.

È appena uscito, a maggio, a Pechino, il mio quinto libro tradotto in cinese L’Ideologia del Traditore. Molti miei libri son tradotti in tutto il mondo e quindi il ruolo del critico è un ruolo assolutamente global. Io mi sento in questo un critico nomade e la mia antropologia napoletana favorisce il mio nomadismo, visto che il napoletano è, per definizione, emigrante. Solo che io amo tornare a Roma, in via Giulia, perché è un teatro visivo straordinario e stimolante. Per l’anno venturo, poi, sto preparando, presso il Museo Puskin di Mosca, una mostra sulla Transavanguardia. Il 23 giugno prossimo organizzo a Padula una manifestazione che si chiama Frescobosco. Per tutta la notte, dalle otto di sera alle sei della mattina, io esco dalla Certosa ed entro nel bosco, con varie performances. Infine, il 30 giugno, nell’ambito del Festival di Ravello, quest’anno dedicato al gioco, organizzo una mostra che si intitolerà “Il gioco è fatto”, con una serie di artisti internazionali, storici e giovani.

Se tu avessi la bacchetta magica e potessi tornare improvvisamente indietro di 30 o 40 anni, rifaresti lo stesso percorso, la stessa professione o cambieresti qualcosa del tuo passato?

Un altro aborisma dice: critici si nasce, artisti si diventa e pubblico si muore! Quindi… meglio di così…

 

 

 

 

 

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