Non avevo molta voglia, quella mattina, di andare a vedere una mostra. Tanto meno di pittura. Ho attraversato un pezzo di Villa Torlonia e, dopo un caffè durato più del solito, ho aperto la porta del casino dei Principi che ospitava l’esposizione di Renzo Vespignani. Sono bastati pochi minuti per rendermi conto che si trattava di qualcosa di diverso dalla solita mostra di opere d’arte contemporanea. I quadri campeggiavano forti e luminosi sulle non troppo ampie pareti delle sale sovrapposte. Non che non conoscessi Vespignani, ma non lo sapevo così bravo e così trascurato dalla fama e dal grande successo di pubblico. Come ricorda nella premessa al recente Catalogo Ragionato dei dipinti il suo autore, nonché curatore della mostra con Netta Vespignani, Valerio Rivosecchi, l’artista, al contrario di molti suoi coetanei d’oltralpe, non fu tanto apprezzato e rimase per lungo tempo un pittore di serie B. Ma, naturalmente, di tutt’altro si tratta. Vissuto dal 1924 al 2001, Vespignani rappresenta con le sue opere cinquant’anni di storia italiana, dalle macerie della guerra alle speranze della ricostruzione, dai nuovi miti della società dei consumi, al clima di degrado etico ed esistenziale seguito al crollo degli ideali di rinnovamento sociale. Indiscusso maestro del XX secolo, Vespignani visse la sua avventura d’artista “con intelligenza critica, profondità intellettuale ed una forte spinta etica.” Suscitò l’interesse di artisti e studiosi che ne condivisero ideali, dubbi e speranze. Scrive Rivosecchi: “eppure aveva ragione Pasolini a dire che la motivazione più profonda di tutto il suo lavoro è in “un fantasma ‘poetico’ che l’ossessiona, e, come tale, tende a restare sempre uguale a se stesso, fuori dal moto della storia anche interiore.” Per tutta la vita Vespignani ha dipinto le molte apparizioni e travestimenti, spesso terrificanti, di quel fantasma, mettendoci di fronte a degli incubi di natura storica e sociale (…), che tuttavia appaiono come manifestazioni esteriori di un’unica ossessione di carattere psicologico, che potremmo definire, semplificando, come la presenza costante della Morte nella Vita.”
Omaggio a dieci anni dalla scomparsa, l’esposizione, composta da una cinquantina di dipinti, disegni e incisioni, accompagnati in ogni sezione da documenti e fotografie d’epoca, segue un tracciato cronologico a partire dall’esordio nella Roma del secondo dopoguerra. Dopo le opere che lo vedono protagonista del Neo-realismo pittorico, si attraversano gli anni dal 1959 al 1964, ai quali è dedicata una sala dell’esposizione, con le celebri Periferie e i quadri ispirati a via Veneto e alla “Dolce vita”. La cruda precisione fotografica, l’oggettiva visione e la nitidezza del segno convergono poi in un momento drammatico ed esistenziale che si evidenzia nelle Anatomie e negli interni ed infine, nelle ultime due sale, si giunge all’importante stagione pittorica della maturità, con grandi cicli pittorici e dipinti come Imbarco per Citera, Album di famiglia, Tra due guerre, Come mosche nel miele, Manhattan transfer. Passeggiando nelle piccole sale del Casino dei Principi, si osservano con ammirazione le notevoli capacità tecniche e l’acuta, profonda coscienza che Vespignani aveva del suo tempo. Raggiunti ormai i settanta anni, l’artista è ancora nuovo e ‘giovane’ quando si accinge all’ultima fase della sua carriera. Si rimette in gioco e, istintivo e struggente, si dedica con trasporto a scenari candidi e sognanti di natura e a visioni piuttosto malinconiche di città brulicanti di vita. Scrive ancora Rivosecchi: “Non più l’ ‘umor nero’, corrosivo e disperato, che accompagna l’artista per gran parte della sua vita, ma una più dolce sensazione di abbandono, quasi per un congedo privo di rimpianti.” L’ultimo quadro in esposizione del 1999, dal titolo Tramonto romano, raffigura un interno illuminato visto da fuori. La stanza che si intravede è lo studio dell’artista, una sorta di sguardo esterno, ormai lucido e consapevole, su una dimensione tutta interiore.
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