In un agosto dalle temperature davvero opprimenti, sotto una canicola nella quale a stento si riesce a respirare, camminando a piedi in quel tratto di Lungotevere che va da ponte Sisto a ponte Mazzini, mi sono casualmente imbattuta nell’ultima, monumentale opera di Kendritge. Non che non sapessi della gigantesca impresa, ma, travolta dalla banale quotidianità, non ero ancora riuscita a vederla. Dunque, ho deciso di ritornarci all’imbrunire, quando il mio cervello si rimette a funzionare e sembra ancora possibile che l’arte illumini la mia esistenza di nuove e stimolanti intuizioni.
Non sono stata delusa: Triumphs and Laments rappresenta davvero il progetto site specific più ambizioso realizzato dall’artista sudafricano fino ad oggi. Per circa 550 metri, come in un lungo fregio, le glorie e le miserie della città Eterna si svolgono sotto gli occhi dei visitatori.
Più di ottanta figure, alte fino dieci metri, celebrano le grandi vittorie e le terribili sconfitte che hanno caratterizzato la storia di Roma, in una sorta di balletto che termina in piazza Tevere, come denominata dal suo stesso autore. Assistiamo alla morte di Remo per mano di Romolo, a Marcello Mastroianni che bacia Anita Ekberg in una improbabile doccia-fontana, all’effigie di Garibaldi, da San Pietro al Ghetto Ebraico, sino alle tragiche tappe degli assassinii di Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini.
La tecnica esecutiva proposta ricorda quella michelangiolesca del “levare” che, mutuata dagli esperimenti di Kristin Jones con la Lupa nel 2009, crea i bianchi dal nero, pulendo con getti d’acqua le superfici sporche, attraverso la pulitura selettiva della patina biologica che riveste il travertino dei muraglioni. L’effetto è sorprendente. Contravvenendo all’idea imperante che l’opera d’arte vive per sempre, William Kentridge scrive una storia destinata a scomparire. Alla prossima piena del Tevere, e comunque tra pochi anni, la transitorietà dell’opera avrà smesso di essere tale, perché si sa, il tempo, imperturbabile, corrode i giorni e pure le cose.