PINO VOLPINO: BESTIARIO URBANO

Occhi sbarrati. Attoniti. Interdetti. Scrutano il mondo. Osservano l’osservatore. Ultimamente, mi ci imbatto spesso e la sensazione è sempre la medesima: una sorta di disagio che naturalmente avverto quando qualcuno/qualcosa tenta di guardarmi oltre la superficie, in profondità. E’ come se il pudore non bastasse più a difendermi. E la cosa si ripete ogni volta che per caso, su e giù per Roma, incontro le opere di Pino Volpino. Occhi di animali soli, forse abbandonati, forse dimenticati, sicuramente sfortunati, fissano increduli il loro fruitore. Che ne sarà di me? – sembrano domandare – che brutta fine mi aspetta?
Fiorentino di origine, romano di adozione, Pino inizia nel 2014 la sua attività per strada. I suoi poster stanno tappezzando poco alla volta la città, a cominciare da piazza di Villa Carpegna. Ed è da poco che lo si incontra sul web: la gente fotografa i suoi animali e li posta sui social. Qualcuno adesso li stacca dai muri per incorniciarli a casa propria. L’ho incontrato a Roma, in centro, e gli ho chiesto il perché di questa scelta e se fosse legata ad una qualche intenzione animalista.

Mi ha guardato con occhi sereni e un po’ impacciati e mi ha spiegato che nei suoi lavori non ci sono polemiche, né doppi sensi, ma solo il tentativo di dare voce agli ultimi, che, nel suo caso, sono gli animali più sfigati, quelli di cui nessuno si occupa e che quasi certamente finiranno cucinati in qualche ristorante: mucche, galline, anatre, asini, rane, maiali.

Lo sfondo è inesistente, completamente piatto, nessun segno evidente si ricollega ad un qualche contesto riconoscibile. L’unica possibilità di stabilire una relazione sono gli occhi: bianchi, grandi, spalancati. I colori sono pochi e  terrosi, contaminati, qualche volta acidi, più spesso spenti. Le campiture sono quasi prive di profondità, poche ombre e poche ma decise pennellate per costruire i volumi.
Che gli animali svolgessero in arte una funzione iconografica è già cosa nota, come il fatto che, nella maggior parte dei casi, siano in realtà autentici motori di senso, utilizzati per condizionare l’intera scena.

Ma qui la scena non c’è. Dietro è vuoto. Anzi, non c’è nemmeno un “dietro”, ma solo un hic et nunc che soffoca l’immagine e la spinge a dilatarsi fino ai bordi, che sembrano faticare a contenerla. Se pure sottraendosi ad una logica di pura descrizione del visibile, la valenza dell’apparato simbolico, nell’ambito delle finalità della sua opera, è innegabile e pure superiore alla necessità realistica di configurare un’unità di tempo e di luogo. Ho già pure detto, però, che qui non ci sono tempi, né luoghi.

Dall’arte medievale a quella rinascimentale, attraverso i nomi di grandissimi artisti, le figure degli animali si collocano in un contesto simbolico che travalica la dimensione religiosa o morale, per finire in quella laica delle faccende umane e terrene, dei valori di una nuova società in cui i miti ed i simboli sono tutti da rifare.
Carico di simbolismo, il lavoro di Pino Volpino, nonostante l’apparente fissità, ci ricorda che l’esistenza è qualcosa di dinamico, che presuppone un processo di metamorfosi infinita. Quello che oggi è considerato ultimo potrebbe tornare alla ribalta e agli onori della cronaca, come una volta al tempo dei Greci, nella mitologia classica. Insomma gli animali come metafora della forza inarrestabile della vita.
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