Il genere umano sta attraversando la più profonda crisi della sua storia, dopo la seconda guerra mondiale. Il vecchio mondo forse sta morendo, per lasciare spazio ad una nuova alba. In questo momento di cambiamento, il ruolo dell’artista può solo essere rivoluzionario. Ma non per questo è necessario utilizzare strumenti sovversivi e volti al clamore a tutti i costi. Perchè talvolta è proprio in un gesto laterale, ma non per questo secondario, che viene fuori la bellezza mite, ma impegnata, di un artista.
E’ questo il senso dell’ultima fatica di Pino Volpino. Un’unica striscia di cartone ondulato, forse lunga 15 metri, dipinta da entrambi i lati. Tinta lavabile bianca data a corpo, smalto blu e bomboletta spray rossa alla mano. Poche ore di frenetico lavoro (giusto il tempo di far asciugare i colori) e poi, solo dopo qualche mese, il gesto decisivo: un bel paio di grandi forbici a recidere il cartone, fino ad ottenere singoli quadrati di circa 30 x 40 cm. Tagli regolari, sicuri, pochi scarti. Certo, l’impresa non è completamente originale. Chi non ricorda, infatti, i grandi cicli di decine e decine di metri di tela dipinta di Pinot Gallizio? ma il risultato è altrettanto stupefacente: pittura a metraggio dalla cifra stilistica inconfondibile, che si snoda in una grammatica rudimentale, ma sufficiente a reggere, con la sola forza del colore, una inaspettata impalcatura traboccante di racconti.
Quella che vediamo svolgersi davanti ai nostri occhi è una vera e propria parata di vita fluida, scorrevole, tutta cerchi, linee e quadrati: geroglifici misteriosi di una lingua sconosciuta. Sembra di essere immersi in un ciclo visionario di materia viva che pulsa, spinge, cerca di emergere per respirare. Uno spettacolo aperto a colti e sprovveduti, conoscitori e analfabeti, ma tutti coinvolti nella tensione estrema e naturale del segno che si muove ondivago in incredibili acrobazie.
Non si tratta solo di un gesto poetico, ma di un atto di protesta, di denuncia, un atto estremo di libertà e di resistenza. I monotipi ottenuti funzionano come moduli. Sono coerenti stilisticamente e cromaticamente e pure ricomponibili in massima libertà, per chi decide di appropriarsene. A questo punto, il legame con l’autore è definitivamente scisso, il taglio ha spersonalizzato l’opera e non sarà più possibile ricomporre l’originale. Ciascuno, a contatto con il singolo frammento, può decidere se lasciarlo solo, unico testimone di un sofferto processo, o ricreare una varietà potenzialmente infinita di nuove versioni.
Ne deriva un superamento del concetto stesso di arte, che vuole essere letto come uno strumento di critica della società consumistica e non interpretato come spregio per il suo mero aspetto economico. E’ ormai cosa nota, infatti, che dagli anni Ottanta in poi la produzione artistica sia stata in gran parte schiava dell’industria culturale, dalla quale è valutata come merce. Qui, invece, siamo di fronte ad un atto creativo alla cui giustezza Pino Volpino ha affidato la sua posizione artistica.
Non si tratta più di teorie utopiche legate alla volontà di tenere ben salda l’autonomia estetica, ma di un dipingere come conseguenza del vivere, di un entusiasmo di sentirsi vitale in un preciso ordine di fatti che stanno diventando quelli determinanti. Non si tratta di una rivoluzione, ma di una affermazione artistica per cui quello che conta è l’atteggiamento di grado zero: povertà di materiali, elementarità, gusto del precario che non vogliono per forza testimoniare una discesa verso i livelli più primordiali. Al contrario, si tratta di una serena accettazione della caoticità e del disordine del nostro presente, senza ricorso a compiaciuti tuffi nel magma fisico-materiale. Da qui, cerca di emergere una avventura personale che si è svolta fuori dal contesto classico ed il cui tratto distintivo è in assoluto l’autenticità.
Dal groviglio segnico emerge prepotente una impressione di verità che non è esterna alla struttura originaria dell’artista, ma riaffiora da complesse sedimentazioni sociali che premono prepotenti per integrarla. Pino è un cercatore che non teme il vuoto, che riorganizza il caos incipiente senza irrigidirsi in uno schema, che prende senza afferrare e senza pretendere di possedere. Un sognatore con i piedi infilati nella terra.
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