Quando a Bari frequentavo l’Accademia di Belle Arti ero follemente innamorata della Transavanguardia. Quel movimento artistico che, negli anni Ottanta, riportava sulla cresta dell’onda il valore della pittura, dopo anni di sperimentazioni forsennate. Mimmo Palladino, Nicola De Maria, Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi ne erano gli indiscussi protagonisti. Qualcuno ho anche avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, grazie all’incontro romano con Achille Bonito Oliva, il critico d’arte che ne era stato il fondatore. Studentessa appassionata, ho trascorso in Accademia anni densi di studio e ricerca, colmi di entusiasmi che avvampavano facilmente. Di certo, quelle enormi tele dipinte mi colmavano di fervore creativo, mai pago.
Cucchi, in particolare, mi colpiva per quei suoi lavori così misteriosi, tele che non finivano mai, piatte solo in apparenza e che tentavano di superare i perimetri stabiliti dall’arte visiva, estendendo l’immagine al di là dello spazio pittorico. Grande evocatore di storie, miti e luoghi, Enzo Cucchi è oggi uno tra gli artisti più prolifici e originali della scena contemporanea.
La sua ultima esposizione romana, Il poeta e il mago, a cura di Luigia Lonardelli e Bartolomeo Pietromarchi, presso il Maxxi, fino al 24 settembre prossimo, non è una retrospettiva classica. Seguendo, infatti, la sua personale attitudine, la mostra non segue una impostazione lineare, ma è concepita come un percorso all’interno del suo universo poetico, presentando un nucleo di opere recenti messe in relazione con alcune del passato, a partire dagli anni Settanta.
Lavori su carta, libri, dipinti, sculture che combinano pittura, terracotta, ceramica, marmi e bronzi, reti e ferri. Le oltre duecento opere esposte scandiscono un percorso ricco di sorprese che incantano il visitatore.
L’allestimento è studiato nei minimi particolari: al centro di tutta la galleria si snoda un dispositivo a varie altezze su cui sono poggiate numerose ceramiche, nello spazio vuoto del soffitto fluttuano disegni enormi che creano improvvisi cambi di prospettiva, un’area separata cela al centro del pavimento un’aquila capovolta e sulla gradinata di un’intera parete sono allestite le decine di progetti editoriali realizzati da Cucchi nel corso della sua lunga carriera.
E poi ci sono le tele, alcune con inserzioni e protuberanze in terracotta, ma tutte altamente poetiche, capaci di sprigionare simboli, immagini, ricordi, suoni, memorie.
Sono tornata a vedere la mostra più volte, rapita dai colori tribali e fortemente onirici e mi sono chiesta, come sempre da decenni, quando un’opera d’arte diventi universale e non solo espressione del singolo. E ho concluso che deve essere questo il caso se “l’alchimista che plasma la materia” è in grado di superare il concetto di tempo, riunendo il passato ed il futuro in un unico lungo presente che rinnega la linearità cronologica, in favore di quel perenne movimento che fiorisce nell’oggi, lo rende attuale, spirituale, sacro.